Passeggiando per le vie di Palermo o di Venezia, un viaggiatore inglese resta colpito alla vista del bucato steso ad asciugare sui balconi o fuori dalle finestre; nella città britanniche o statunitensi non capita di imbattersi in scene simili. E se sì, si può stare certi di essere finiti nei quartieri "malfamati", o "difficili": zone da cui la "gente perbene" cerca di tenersi lontana. Aree "sconsigliate", dove i forestieri farebbero bene a non avventurarsi e da cui chi vi abita difficilmente riesce a venir fuori. Da tempo negli Stati Uniti si è diffusa un nuovo fenomeno, approdato poi in Europa e nella maggior parte dei Paesi europei (potrebbe presto giungere a Verona o Napoli, chi lo sa?). Si tratta delle gated community: comprensori residenziali il cui accesso è rigorosamente sorvegliato e dove guardie armate, allarmi e telecamere a circuito chiuso tengono lontani gli intrusi e dove chi può permetterselo si stabilisce per sottrarsi alla ressa e al caos delle strade dove tutto può accadere. Anche queste sono zone per certi aspetti invalicabili; qui però, al contrario di quanto sopra, chi si trova all'interno è libero di uscire, e a chi sta fuori è vietato accedere. Chi ha la fortuna di abitare in una gated community (oltre a sborsare un patrimonio per il "servizio di sicurezza") ha l'obbligo di sottostare a una lista di restrizioni, tra cui il divieto di stendere il bucato in vista. In queste "comunità chiuse" il privato deve rimanere tale. E mentre nei quartieri cittadini gli spazi comuni sono luoghi adibiti al viavai e al passeggio, dove ci si incontra, ci si guarda negli occhi e si scambiano quattro chiacchiere, le strade delle gated community sono per lo più deserte, tanto che un qualsiasi elemento estraneo - uno sconosciuto - risalterebbe all'occhio prima di poter avere il tempo di compiere scherzi, danni o turbare il "privato". Chiunque, a dire il vero, potrebbe essere considerato un estraneo, appartenente alla temibile categoria di individui di cui è impossibile valutare le intenzioni e prevedere le mosse. Viviamo in un'epoca di telefoni cellulari (per non parlare di MySpace, Facebook o Twitter) in cui gli amici si scambiano messaggi anziché visite e tutti quelli che conosciamo sono costantemente "online" e in grado di annunciare con debito anticipo l'intenzione di venirci a trovare. Per questo un campanello o un citofono che suonano inaspettatamente rappresentano un evento straordinario e annunciano un potenziale pericolo. Ma il termine "community" non è del tutto appropriato; come si legge in un rapporto pubblicato nel 2003 dall'Università di Glasgow, all'interno di questi comprensori "non si denota alcun desiderio di entrare in contatto con gli altri. Nelle gated community il senso di comunità è sentito meno che altrove". Quale che sia il pretesto con cui chi vi abita (e gli agenti immobiliari che hanno venduto loro la casa) giustificano la scelta, i residenti delle comunità residenziali non pagano prezzi esorbitanti per poter vivere all'interno di una "comunità" (quell'entità collettiva notoriamente intrigante che ti accoglie a braccia aperte per poi trattenerti come in una morsa d'acciaio). Benché siano pronti a dichiarare altrimenti (talvolta in buona fede), il motivo per cui sborsano grosse somme è di essere lasciati soli. Oltre la recinzione, all'interno delle mura, abitano individui solitari, in grado di tollerare solo comunità di questo tipo. Secondo la maggioranza degli studiosi, il motivo principale che (consapevolmente o meno) spinge a voler vivere in quello spazio sorvegliato da telecamere a circuito chiuso è quello di voler tenere il lupo cattivo fuori dall'uscio. Gli estranei sono dei potenziali pericoli. Chi sceglie una gated community lo fa poi per sottrarsi alla spaventosa, straziante, debilitante paura dell'insicurezza - di sentirsi minacciati. I motivi all'origine delle nostre insicurezze sono però molteplici, e di natura diversa. Esiste certo la preoccupazione (reale o immaginaria) provocata dall'aumento della criminalità e da visioni di orde di ladri che aspettano solo il momento buono per colpire. Ma ci sentiamo insicuri anche sul lavoro, e quando sentiamo che il nostro reddito, il nostro status sociale e la nostra dignità sono minacciati. Non abbiamo la garanzia di non essere mai licenziati o esclusi, o che la posizione a cui teniamo e che riteniamo ci spetti possa venir meno. O forse sono i nostri rapporti a essere instabili: magari viviamo dei conflitti interni che siamo incapaci di gestire. La nostra casa potrebbe essere demolita per fare posto a nuovi edifici, o subire una svalutazione per motivi estranei. Sarebbe sciocco sperare che circondandoci di mura, guardie e telecamere tutte queste preoccupazioni possano svanire. Che dire, infine, del motivo principale che spinge a scegliere una comunità di questo tipo? Mi riferisco alla paura di subire una violenza, una rapina o il furto dell'auto - o al fastidio di imbattersi in mendicanti importuni. La gated community non garantisce almeno di sradicare questo tipo di paure? Anche su questo fronte i vantaggi non giustificano le rinunce. Come segnalato dai più acuti osservatori della vita urbana contemporanea, in una gated community le probabilità di subire un attacco o una rapina sono forse inferiori (benché un recente studio condotto in California, uno degli Stati in cui le gated community hanno preso maggiormente piede - non confermi questo dato), ma la paura permane, immutata. Anzi, tutt'al più si intensifica. Anna Minton, autrice di un approfondito studio dal titolo "Controllare il territorio: paura e felicità nelle città del ventunesimo secolo", cita il caso di Monica, che quando "il cancello elettrico si inceppò e dovette essere aperto a forza, non chiuse occhio tutta la notte, più spaventata di quanto non fosse mai stata nei vent'anni vissuti in un normale quartiere di Londra". Dietro le mura l'ansia, anziché dissiparsi, si fa più intensa, così come la dipendenza da soluzioni tecnologiche che promettono di tenere lontani i pericoli. Più ci si circonda di simili strumenti, maggiore è la paura che possano fare cilecca. Più ci preoccupiamo delle minacce che possono nascondersi dietro agli sconosciuti più ce ne teniamo lontani e la nostra capacità di tollerare e apprezzare l'imprevisto diminuisce, sino a renderci incapaci di affrontare e apprezzare la vivacità e la varietà della vita urbana. Sarebbe come svuotare una piscina per impedire che i bambini affoghino. (Traduzione di Marzia Porta)
"Ghetti di lusso"
da Lettere dal mondo liquido di Zygmunt Bauman
D la Repubblica delle donne 23/05/09
Ghetti di lusso
"Tra le mura delle "gated community" abitano individui solitari, che tollerano solo i propri simili"
Passeggiando per le vie di Palermo o di Venezia, un viaggiatore inglese resta colpito alla vista del bucato steso ad asciugare sui balconi o fuori dalle finestre; nella città britanniche o statunitensi non capita di imbattersi in scene simili. E se sì, si può stare certi di essere finiti nei quartieri "malfamati", o "difficili": zone da cui la "gente perbene" cerca di tenersi lontana. Aree "sconsigliate", dove i forestieri farebbero bene a non avventurarsi e da cui chi vi abita difficilmente riesce a venir fuori. Da tempo negli Stati Uniti si è diffusa un nuovo fenomeno, approdato poi in Europa e nella maggior parte dei Paesi europei (potrebbe presto giungere a Verona o Napoli, chi lo sa?). Si tratta delle gated community: comprensori residenziali il cui accesso è rigorosamente sorvegliato e dove guardie armate, allarmi e telecamere a circuito chiuso tengono lontani gli intrusi e dove chi può permetterselo si stabilisce per sottrarsi alla ressa e al caos delle strade dove tutto può accadere. Anche queste sono zone per certi aspetti invalicabili; qui però, al contrario di quanto sopra, chi si trova all'interno è libero di uscire, e a chi sta fuori è vietato accedere. Chi ha la fortuna di abitare in una gated community (oltre a sborsare un patrimonio per il "servizio di sicurezza") ha l'obbligo di sottostare a una lista di restrizioni, tra cui il divieto di stendere il bucato in vista. In queste "comunità chiuse" il privato deve rimanere tale. E mentre nei quartieri cittadini gli spazi comuni sono luoghi adibiti al viavai e al passeggio, dove ci si incontra, ci si guarda negli occhi e si scambiano quattro chiacchiere, le strade delle gated community sono per lo più deserte, tanto che un qualsiasi elemento estraneo - uno sconosciuto - risalterebbe all'occhio prima di poter avere il tempo di compiere scherzi, danni o turbare il "privato". Chiunque, a dire il vero, potrebbe essere considerato un estraneo, appartenente alla temibile categoria di individui di cui è impossibile valutare le intenzioni e prevedere le mosse. Viviamo in un'epoca di telefoni cellulari (per non parlare di MySpace, Facebook o Twitter) in cui gli amici si scambiano messaggi anziché visite e tutti quelli che conosciamo sono costantemente "online" e in grado di annunciare con debito anticipo l'intenzione di venirci a trovare. Per questo un campanello o un citofono che suonano inaspettatamente rappresentano un evento straordinario e annunciano un potenziale pericolo. Ma il termine "community" non è del tutto appropriato; come si legge in un rapporto pubblicato nel 2003 dall'Università di Glasgow, all'interno di questi comprensori "non si denota alcun desiderio di entrare in contatto con gli altri. Nelle gated community il senso di comunità è sentito meno che altrove". Quale che sia il pretesto con cui chi vi abita (e gli agenti immobiliari che hanno venduto loro la casa) giustificano la scelta, i residenti delle comunità residenziali non pagano prezzi esorbitanti per poter vivere all'interno di una "comunità" (quell'entità collettiva notoriamente intrigante che ti accoglie a braccia aperte per poi trattenerti come in una morsa d'acciaio). Benché siano pronti a dichiarare altrimenti (talvolta in buona fede), il motivo per cui sborsano grosse somme è di essere lasciati soli. Oltre la recinzione, all'interno delle mura, abitano individui solitari, in grado di tollerare solo comunità di questo tipo. Secondo la maggioranza degli studiosi, il motivo principale che (consapevolmente o meno) spinge a voler vivere in quello spazio sorvegliato da telecamere a circuito chiuso è quello di voler tenere il lupo cattivo fuori dall'uscio. Gli estranei sono dei potenziali pericoli. Chi sceglie una gated community lo fa poi per sottrarsi alla spaventosa, straziante, debilitante paura dell'insicurezza - di sentirsi minacciati. I motivi all'origine delle nostre insicurezze sono però molteplici, e di natura diversa. Esiste certo la preoccupazione (reale o immaginaria) provocata dall'aumento della criminalità e da visioni di orde di ladri che aspettano solo il momento buono per colpire. Ma ci sentiamo insicuri anche sul lavoro, e quando sentiamo che il nostro reddito, il nostro status sociale e la nostra dignità sono minacciati. Non abbiamo la garanzia di non essere mai licenziati o esclusi, o che la posizione a cui teniamo e che riteniamo ci spetti possa venir meno. O forse sono i nostri rapporti a essere instabili: magari viviamo dei conflitti interni che siamo incapaci di gestire. La nostra casa potrebbe essere demolita per fare posto a nuovi edifici, o subire una svalutazione per motivi estranei. Sarebbe sciocco sperare che circondandoci di mura, guardie e telecamere tutte queste preoccupazioni possano svanire. Che dire, infine, del motivo principale che spinge a scegliere una comunità di questo tipo? Mi riferisco alla paura di subire una violenza, una rapina o il furto dell'auto - o al fastidio di imbattersi in mendicanti importuni. La gated community non garantisce almeno di sradicare questo tipo di paure? Anche su questo fronte i vantaggi non giustificano le rinunce. Come segnalato dai più acuti osservatori della vita urbana contemporanea, in una gated community le probabilità di subire un attacco o una rapina sono forse inferiori (benché un recente studio condotto in California, uno degli Stati in cui le gated community hanno preso maggiormente piede - non confermi questo dato), ma la paura permane, immutata. Anzi, tutt'al più si intensifica. Anna Minton, autrice di un approfondito studio dal titolo "Controllare il territorio: paura e felicità nelle città del ventunesimo secolo", cita il caso di Monica, che quando "il cancello elettrico si inceppò e dovette essere aperto a forza, non chiuse occhio tutta la notte, più spaventata di quanto non fosse mai stata nei vent'anni vissuti in un normale quartiere di Londra". Dietro le mura l'ansia, anziché dissiparsi, si fa più intensa, così come la dipendenza da soluzioni tecnologiche che promettono di tenere lontani i pericoli. Più ci si circonda di simili strumenti, maggiore è la paura che possano fare cilecca. Più ci preoccupiamo delle minacce che possono nascondersi dietro agli sconosciuti più ce ne teniamo lontani e la nostra capacità di tollerare e apprezzare l'imprevisto diminuisce, sino a renderci incapaci di affrontare e apprezzare la vivacità e la varietà della vita urbana. Sarebbe come svuotare una piscina per impedire che i bambini affoghino. (Traduzione di Marzia Porta)
Passeggiando per le vie di Palermo o di Venezia, un viaggiatore inglese resta colpito alla vista del bucato steso ad asciugare sui balconi o fuori dalle finestre; nella città britanniche o statunitensi non capita di imbattersi in scene simili. E se sì, si può stare certi di essere finiti nei quartieri "malfamati", o "difficili": zone da cui la "gente perbene" cerca di tenersi lontana. Aree "sconsigliate", dove i forestieri farebbero bene a non avventurarsi e da cui chi vi abita difficilmente riesce a venir fuori. Da tempo negli Stati Uniti si è diffusa un nuovo fenomeno, approdato poi in Europa e nella maggior parte dei Paesi europei (potrebbe presto giungere a Verona o Napoli, chi lo sa?). Si tratta delle gated community: comprensori residenziali il cui accesso è rigorosamente sorvegliato e dove guardie armate, allarmi e telecamere a circuito chiuso tengono lontani gli intrusi e dove chi può permetterselo si stabilisce per sottrarsi alla ressa e al caos delle strade dove tutto può accadere. Anche queste sono zone per certi aspetti invalicabili; qui però, al contrario di quanto sopra, chi si trova all'interno è libero di uscire, e a chi sta fuori è vietato accedere. Chi ha la fortuna di abitare in una gated community (oltre a sborsare un patrimonio per il "servizio di sicurezza") ha l'obbligo di sottostare a una lista di restrizioni, tra cui il divieto di stendere il bucato in vista. In queste "comunità chiuse" il privato deve rimanere tale. E mentre nei quartieri cittadini gli spazi comuni sono luoghi adibiti al viavai e al passeggio, dove ci si incontra, ci si guarda negli occhi e si scambiano quattro chiacchiere, le strade delle gated community sono per lo più deserte, tanto che un qualsiasi elemento estraneo - uno sconosciuto - risalterebbe all'occhio prima di poter avere il tempo di compiere scherzi, danni o turbare il "privato". Chiunque, a dire il vero, potrebbe essere considerato un estraneo, appartenente alla temibile categoria di individui di cui è impossibile valutare le intenzioni e prevedere le mosse. Viviamo in un'epoca di telefoni cellulari (per non parlare di MySpace, Facebook o Twitter) in cui gli amici si scambiano messaggi anziché visite e tutti quelli che conosciamo sono costantemente "online" e in grado di annunciare con debito anticipo l'intenzione di venirci a trovare. Per questo un campanello o un citofono che suonano inaspettatamente rappresentano un evento straordinario e annunciano un potenziale pericolo. Ma il termine "community" non è del tutto appropriato; come si legge in un rapporto pubblicato nel 2003 dall'Università di Glasgow, all'interno di questi comprensori "non si denota alcun desiderio di entrare in contatto con gli altri. Nelle gated community il senso di comunità è sentito meno che altrove". Quale che sia il pretesto con cui chi vi abita (e gli agenti immobiliari che hanno venduto loro la casa) giustificano la scelta, i residenti delle comunità residenziali non pagano prezzi esorbitanti per poter vivere all'interno di una "comunità" (quell'entità collettiva notoriamente intrigante che ti accoglie a braccia aperte per poi trattenerti come in una morsa d'acciaio). Benché siano pronti a dichiarare altrimenti (talvolta in buona fede), il motivo per cui sborsano grosse somme è di essere lasciati soli. Oltre la recinzione, all'interno delle mura, abitano individui solitari, in grado di tollerare solo comunità di questo tipo. Secondo la maggioranza degli studiosi, il motivo principale che (consapevolmente o meno) spinge a voler vivere in quello spazio sorvegliato da telecamere a circuito chiuso è quello di voler tenere il lupo cattivo fuori dall'uscio. Gli estranei sono dei potenziali pericoli. Chi sceglie una gated community lo fa poi per sottrarsi alla spaventosa, straziante, debilitante paura dell'insicurezza - di sentirsi minacciati. I motivi all'origine delle nostre insicurezze sono però molteplici, e di natura diversa. Esiste certo la preoccupazione (reale o immaginaria) provocata dall'aumento della criminalità e da visioni di orde di ladri che aspettano solo il momento buono per colpire. Ma ci sentiamo insicuri anche sul lavoro, e quando sentiamo che il nostro reddito, il nostro status sociale e la nostra dignità sono minacciati. Non abbiamo la garanzia di non essere mai licenziati o esclusi, o che la posizione a cui teniamo e che riteniamo ci spetti possa venir meno. O forse sono i nostri rapporti a essere instabili: magari viviamo dei conflitti interni che siamo incapaci di gestire. La nostra casa potrebbe essere demolita per fare posto a nuovi edifici, o subire una svalutazione per motivi estranei. Sarebbe sciocco sperare che circondandoci di mura, guardie e telecamere tutte queste preoccupazioni possano svanire. Che dire, infine, del motivo principale che spinge a scegliere una comunità di questo tipo? Mi riferisco alla paura di subire una violenza, una rapina o il furto dell'auto - o al fastidio di imbattersi in mendicanti importuni. La gated community non garantisce almeno di sradicare questo tipo di paure? Anche su questo fronte i vantaggi non giustificano le rinunce. Come segnalato dai più acuti osservatori della vita urbana contemporanea, in una gated community le probabilità di subire un attacco o una rapina sono forse inferiori (benché un recente studio condotto in California, uno degli Stati in cui le gated community hanno preso maggiormente piede - non confermi questo dato), ma la paura permane, immutata. Anzi, tutt'al più si intensifica. Anna Minton, autrice di un approfondito studio dal titolo "Controllare il territorio: paura e felicità nelle città del ventunesimo secolo", cita il caso di Monica, che quando "il cancello elettrico si inceppò e dovette essere aperto a forza, non chiuse occhio tutta la notte, più spaventata di quanto non fosse mai stata nei vent'anni vissuti in un normale quartiere di Londra". Dietro le mura l'ansia, anziché dissiparsi, si fa più intensa, così come la dipendenza da soluzioni tecnologiche che promettono di tenere lontani i pericoli. Più ci si circonda di simili strumenti, maggiore è la paura che possano fare cilecca. Più ci preoccupiamo delle minacce che possono nascondersi dietro agli sconosciuti più ce ne teniamo lontani e la nostra capacità di tollerare e apprezzare l'imprevisto diminuisce, sino a renderci incapaci di affrontare e apprezzare la vivacità e la varietà della vita urbana. Sarebbe come svuotare una piscina per impedire che i bambini affoghino. (Traduzione di Marzia Porta)
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