"Giallo a Milano: parlano i protagonisti"

«docu» girato in zona Paolo Sarpi dal regista milanese Sergio Basso
Giallo Milano: parlano i protagonisti
Dentro la comunità più impenetrabile della città: «Noi, generazione - ponte tra due culture»
Una scena di «Giallo a Milano»La pensano così: «Gli incidenti di via Padova? C’era da aspettarselo»; «Fino a qualche anno fa a Milano si viveva meglio»; «Sono fortunata, abito in una zona dove ci sono pochi stranieri»; «Paolo Sarpi? Troppi cinesi». A parlare non sono gli elettori della Lega ma Shi Yanh, Wen Zhang, Suping Huang e Francesco Saverio Wu, tutti cinesi milanesi. Sono alcuni dei protagonisti di «Giallo a Milano », il documentario di Sergio Basso che racconta le contraddizioni della Chinatown meneghina, la più antica e numerosa d’Europa. Hanno accettato di partecipare al film per far sentire la loro voce di immigrati, le loro storie, i loro successi. Come Shi Yang, per esempio. Yang, 31 anni, è un bel ragazzo (è stato «Mister Modello Mondo 2006»), di professione attore (diploma alla scuola del Teatro Arsenale) e aiuto regista (per Giuseppe Tornatore e Gianni Amelio), che arrotonda facendo l’interprete simultaneo.
Shi Yang è nato a Jinan-Shandong ed è cittadino italiano: «A Milano sono arrivato quando avevo 11 anni». L’impatto fu sorprendente: «Per dire, prima di allora non avevo mai visto le tapparelle alle finestre. A 12 anni ho seguito i miei in Calabria lavorando come lavapiatti. È la filosofia cinese del sacrificio, i genitori mandano a lavorare i figli per far subito capire quanto è dura la vita». Dice di sentirsi «per metà cinese e per metà milanese » e di non essere mai stato vittima di episodi di razzismo per il colore della sua pelle: «Piuttosto, i problemi nascono dalla mia sessualità. Sono gay, fidanzato con un ragazzo italiano. In Italia è più difficile essere omosessuali che stranieri».
In via Paolo Sarpi Wen Zhang, per tutti «Jessica», 24 anni, è un’istituzione. Lavora come interprete in uno studio medico in via Niccolini, collabora con la farmacia all’angolo di via Bramante e fa la traduttrice per il Tribunale. Nata a Shangai, «Jessica» è arrivata a Milano quando aveva 12 anni: «Italiana o cinese? Ho le idee un po’ confusa, forse sono più cinese. Ce l’ha con gli stranieri: «Sono vittima della concorrenza sleale dei cinesi. Si improvvisano traduttori senza preparazione e applicano tariffe scontatissime ». Abita in zona Fiera («In Paolo Sarpi ci sono troppi cinesi») e da tre anni è sposata con un italiano: «La mia famiglia non l’ha presa bene. Secondo la nostra cultura, se una ragazza non sposa il primo fidanzato è una poco di buono. Infatti, mio marito non ha rapporti con i miei genitori e il matrimonio non è ancora stato celebrato con il rito cinese».
Quando si parla di integrazione Jessica ha una sua teoria: «L’integrazione deve nascere nella testa delle persone, le istituzioni possono fare poco». Suping Huang, 40 anni, vive a Quarto Oggiaro, è mediatrice culturale all’ospedale Buzzi. Per lei, sposata con un uomo cinese e madre di due figli, i problemi nascono in casa. «Mia figlia 16enne si sente più italiana che cinese. Ogni tanto ci scontriamo. Sostiene che i cinesi vivono solo per lavorare mentre gli italiani sono capaci di godersi la vita». Francesco Saverio Wu, 29 anni, si chiama proprio così. Spiega: «A 21 mi sono fatto battezzare, questo è il mio nome cristiano».
L’ingegner Wu (è laureato al Politecnico) gestisce un ristorante a Legnano. Si chiama «Al borgo antico», personale e cucina sono italiani. Wu racconta che «i pregiudizi verso gli stranieri stanno aumentando. La politica sbaglia a fomentare questi sentimenti in cambio di un pugno di voti». Francesco ha lavorato in Cina per aziende italiane. «Avrei potuto rimanere a Pechino ma ho scelto di tornare in Italia. Questo Paese mi ha dato tanto e vorrei restituire qualcosa». Peccato che non sia ancora cittadino italiano: «Sono le trappole della Bossi-Fini. Eppure l’Italia dovrebbe capire che noi, immigrati di nuova generazione, cresciuti tra due culture e senza pregiudizi, a questo Paese potremmo dare tanto».
Roberto Rizzo
Fonte:corrieredellasera.it

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