Quelle 64 lingue della scuola-Babele di Tottenham
Dall’urdu allo swahili, dal panjabi al creolo L’istituto-simbolo della Londra multietnica
Mille studenti fra gli 11 e i 16 anni.
ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA - School. École. Schule. Schola. Escuela. Escola. Skola. Schola. Szkola. Okul. Scoala. Sono solo una decina dei modi per dire «scuola» alla Woodside High School di Tottenham, quartiere di Londra nord, feudo dell’omonima squadra di calcio della Premier League e simbolo dell’Inghilterra multietnica. Le lingue in cui dire «scuola», in questo istituto secondario statale misto, con mille studenti dagli 11 ai 16 anni di età, sono infatti ben 64, un record, e oltre alle soprannominate comprendono, per citarne qualcuna delle più esotiche, l’arabo, il bengali, il creolo, il cinese, il farsi, il kurdo, il lituano, il panjabi, il somalo, lo swahili, l’urdu, il vietnamese. Davanti all’uscita, all’orario in cui terminano le lezioni, il visitatore si sente come alle Nazioni Unite: "unite" veramente, però, perché i ragazzi e le ragazze che escono ridendo e chiacchierando dai cancelli parlano in maniere differenti, vestono in maniere differenti, vengono da paesi differenti, eppure sono o perlomeno sembrano tutti uguali, nelle loro linde uniformi, e tutti amici.
Mentre in Italia il governo di centrodestra vorrebbe mettere delle "quote" nelle scuole per garantire che gli scolari stranieri siano una minoranza in ogni classe, alla Woodside High School quattro allievi su cinque parlano come lingua madre un idioma diverso da quello di Shakespeare. Qui questa eterogeneità di dialetti, di costumi e di culture non viene vissuta come un danno, bensì come un punto di forza: «In scuole urbane come la nostra, la percentuale di studenti di origine straniera può raggiungere l’80 per cento», dice la preside Joan McVittie. «Noi lo consideriamo un arricchimento».
Gli insegnanti fanno di tutto per integrare rapidamente i nuovi arrivati, senza farli sentire emarginati: non passa settimana senza che entrino a far parte di una classe uno o due scolari nuovi scolari provenienti da una famiglia di neo - immigrati dall’estero, adolescenti che talvolta non spiccicano neppure una parola di inglese, e i genitori sono spesso sullo stesso livello.
Per far fronte alle loro esigenze, la scuola ha adottato una serie di iniziative. Primo: cerca di assumere insegnanti e dipendenti che rispecchino la diversità culturale e linguistica degli studenti. Molti di loro parlano svariate lingue, come Cali Habbad, direttore del dipartimento di !English as a second language", che ha appunto il compito di insegnare l’inglese ai nuovi venuti: lui ammette modestamente di parlarne cinque, e i suoi collaboratori aggiungono che in realtà si arrangia con altre due o tre. Secondo: se i genitori hanno problemi a capire le comunicazioni che la scuola invia a casa, per posta o con i ragazzi, possono venire a scuola nei giorni successivi per farsele tradurre e spiegare. «È un sistema - spiega Habbad - per insegnare un po’ d’inglese anche ai papà e alle mamme». Terzo: ogni alunno che si iscrive alla Woodside High School avendo scarsa o nulla conoscenza dell’inglese riceve fin dal primo giorno un "buddy", un compagno fisso, che siede accanto a lui in classe, lo assiste con la lingua e lo aiuta ad ambientarsi. I risultati sono così buoni che proprio in questi giorni la scuola di Tottenham è finita sui giornali: da quando ha introdotto le misure pro-multiculturalità, i suoi studenti registrano una media di voti più alta del doppio rispetto a quella nazionale. E alcuni sono addirittura tra i migliori d’Inghilterra, come Divita Kumari, 14enne, che ha ottenuto il quinto miglior voto su 23 mila studenti in francese: non la sua lingua madre, essendo una ragazzina albanese.
Naturalmente qualche problema, in una scuola così fortemente multietnica, è inevitabile. Anni fa scoppiavano regolarmente risse tra bande di scolari appartenenti a due minoranze rivali: turchi e somali. La risposta della Woodside High è stata di addestrare gli studenti dell’ultimo anno a mediare per prevenire conflitti.
«Cerco di insegnare dando il buon esempio», dice Arez Mohammed, 16 anni, «cerco di calmare gli animi». Il fatto che lui sia cintura nera di arti marziali lo aiuta, ma non è questa la chiave: «Tutti si sentono trattati alla pari e tutti si sentono responsabilizzati», osserva la preside, che non ricorda più l’ultima volta in cui c’è stato un incidente. Recentemente i suoi mille studenti, aggiunge, hanno fatto pressioni per indossare una divisa, e ne hanno scelti anche i colori, «perché vogliono essere guardati con maggior rispetto dalla gente quando girano per il quartiere. Avranno un look migliore e saranno più orgogliosi della loro scuola. Sono fattori come questi che alzano le aspettative e il rendimento accademico». Intanto, gli allievi sciamano fuori da questa scuola «delle nazioni davvero unite», si danno appuntamento al giorno seguente e si salutano: in 64 lingue differenti.
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