L'IDEA non è nuova. Mezzo secolo fa, in Revolutionary Road, il grande Richard Yates aveva raccontato con insuperata maestria la desolazione esistenziale di una giovane coppia che, a metà degli anni Cinquanta, va a vivere in una villetta dei sobborghi benestanti di New York e che, invece di nutrirsi del sogno americano, abbandona speranze e aspirazioni per affogare nell'ipocrita perbenismo scandito dalla pendolarità quotidiana e dalle cenette sempre uguali con i vicini di casa.
Ma se il tragico eppure algido sperdimento che aleggiava in quel grande romanzo evocava l'immagine patinata di un quadro di Hopper, la desolazione che va in scena in L'ubicazione del bene di Giorgio Falco fa pensare piuttosto a un paesaggio postindustriale senza memoria. La vita, non vita di tanti personaggi che tirano avanti le loro piccole esistenze a Cortesforza, luogo immaginario ma realistico, agglomerato di villette ai margini della città a ridosso di una delle tante tangenziali che ogni giorno tutti percorrono, giù e sù, in una catena di casa, lavoro, casa che serve a pagare il mutuo, crescere i figli e a cambiare l'utilitaria, parla a ciascuno di noi.
Non ci sono grandi drammi, né accadono eventi traumatici in L'ubicazione del bene; è piuttosto la quotidianità buia e immobile la protagonista assoluta di Cortesforza. Quel sottile malessere che addormenta e toglie la voglia di reagire alla disfatta. Giorgio Falco offre un ritratto corale, un non racconto, forse un romanzo. Senza dubbio un libro che ha il merito di colpire con la forza di un pugno nello stomaco
Cortesforza è un sobborgo desolato come i suoi abitanti. Perché questo non luogo?
"Il suburbio residenziale è un'ambientazione quasi naturale per la letteratura americana, mentre la letteratura italiana non aveva ancora esplorato i sobborghi in modo ossessivo. Io ho cercato di farlo. Ho costruito nella zona di Milano Sud questa immaginaria Cortesforza. Il nome racchiude qualcosa di medioevale e un ridimensionamento della Storia, con la s minuscola di Sforza. Del resto i suburbi residenziali sono luoghi senza memoria, in essi sopravvive qualcosa di un passato agricolo, che pare un complemento estetico all'idea di verde dei nuovi residenti. Quanto al futuro, la curiosità più grande di un suburbio è capire entro quanti mesi verrà eroso il prossimo pezzetto di terreno dalle nuove costruzioni. Cortesforza potrebbe essere un nickname o un prodotto qualsiasi, che evoca qualcosa di sano, tradizionale e al tempo stesso innovativo. Comunque non credo che i centri cittadini siano meno desolanti. Se in una città come Milano il centro è fatto soprattutto di negozi, uffici e appartamenti di rappresentanza, è solo un altro tipo di desolazione. Il concetto abitativo del suburbio - la dispersione, la disgregazione, il controllo sociale - è applicato all'intera nazione. Ecco perché L'ubicazione del bene non è una critica rassicurante alle villette dei sobborghi. Questo libro riguarda tutti".
I suoi non sono racconti, sono flashes, foto fatte di parole. Il senso di L'ubicazione del bene in poche battute.
"Magari avessi scritto un libro solo di flashes, foto fatte di parole! Avrei risolto in letteratura la questione del 'momento decisivo' di Cartier Bresson, uno dei concetti più fraintesi nella storia della fotografia. Il 'momento decisivo' non è l'attimo in un cui si concentra il percorso o lo svelamento di una storia. Il 'momento decisivo' è un'immagine. Sta tutto là dentro. Non c'è bisogno di altro. Invece il libro ha un suo filo narrativo, è composto di nove capitoli-racconti. Si può leggere anche come romanzo, o meglio, come qualcosa che ha un effetto romanzesco. Ognuno dei nove ha qualcosa che lo lega all'altro, ma, a differenza di alcuni film come Magnolia, America Oggi, Canicola, i personaggi, per lo più, si sfiorano, chiusi nelle loro vite. Nessuna storia si impone sull'altra. L'unico vero protagonista è il luogo: Cortesforza. E in un ambiente suburbano ostile, per uomini e animali, alcuni personaggi cercano il Bene, in un luogo dove l'unico bene pare quello immobiliare".
Nel suo libro non c'è l'amore, solo abitudine e noia. Perché tanto pessimismo?
"La realtà è decisamente peggiore del libro. Per questo si vendono bene i libri di intrattenimento spacciato per letteratura o di indignazione, che è una sorta di intrattenimento. E invece è difficile per chi scava in ciò che siamo diventati, senza appigli. Io ho voluto essere compassionevole e scrivere con la pietas, perché toglie la banalità e il moralismo alle vite dei personaggi, e alle nostre vite. I personaggi sono andati a vivere a Cortesforza e, messi davanti a una siepe, si specchiano nel loro malessere. Specchiarsi in una vetrina cittadina è più confortante. Specchiarsi in una siepe divisoria o nel muro di un bilocale cittadino è difficile da sopportare. C'è il rischio di vedere se stessi! I problemi dei personaggi nascono proprio quando - i più consapevoli - non si accontentano delle loro vite: casa-lavoro-casa e svago consentito nei limiti del proprio reddito. Cercano un senso, ma questa ricerca fa attraversare soglie dalle quali non si può tornare indietro. E allora inizia una lenta discesa, senza alcuna apocalisse. Quel tipo di discesa non è un fallimento. Accontentarsi, ecco, quello è un fallimento della propria vita. Non cercare più. Per questo è un libro anche religioso. E di fronte a una ricerca onesta, ostinata, gli affanni di una coppia attorno a una nuova utilitaria - con o senza aria condizionata - diventano tragici, e comici, perché seguono la logica pubblicitaria di un ottimismo posticcio, per quella cosa che ancora definiscono amore".
Nessun commento:
Posta un commento