Dietro le sue parole c’è un pezzo affascinante di storia della progettazione urbana che parte da Jane Jacobs, antropologa americana che alla fine degli anni Sessanta valorizzò il controllo che la comunità esercita sul territorio – il famoso “occhio sulla strada” - e da Oscar Newman, il cui lavoro ha ispirato i programmi di prevenzione del crimine attraverso il design urbano: non soltanto repressione della piccola criminalità, né unicamente intervento sulle cause sociali della devianza, ma una pianificazione urbana che valorizza il ruolo di abitanti, commercianti, polizia locale. Così si arriva in Canada: Toronto, Montreal, anni Novanta: «È merito delle progettiste la grande ripresa di questo tema. Con lo slogan “Se la città è più sicura per le donne lo è per tutti” mettono in crisi l’idea di una città modellata esclusivamente sull’uomo, adulto, abile e forte», sottolinea Cardia. Da lì, - protagoniste Gerda Werkerle e Carolyn Whitzman – nasce un lavoro, condensato nel programma Safe cities, in cui le donne diventano protagoniste e interlocutrici dei programmi urbani sulla sicurezza. Dai trasporti pubblici alla formazione di progettisti e polizia, passando per i programmi di promozione dell’eguaglianza tra i sessi e l’obbligo di valutazione dei progetti. Esperienza cardine in un’ottica di genere che influenzerà i contesti internazionali, dando vita a piani di azione ed esperienze come quella tedesca delle quote rose nei parcheggi. E in Italia? E oggi? Se a Cardia, che ha contribuito alla stesura del manuale europeo, si chiede di indicare i territori più virtuosi indica Emilia Romagna e Piemonte. Da questa regione arriva la guida La città si*cura. «Un manuale per spiegare ciò che non si deve fare e ciò che si potrebbe fare: pulsanti per illuminare la fermata dell’autobus, stop notturni a richiesta, posti riservati vicino alle uscite nei parcheggi, percorsi per jogging nei parchi», spiega una delle tre autrici, Marita Peroglio, rammaricata che la crisi economica abbia ritardato l’avvio di alcune sperimentazioni. Avanza un dubbio Rossella Selmini, criminologa che dirige il servizio della Regione Emilia Romagna con al suo attivo molti interventi di riqualificazione nell’ottica della sicurezza integrata.
Sul suo tavolo l’elaborazione della ricerca Istat del 2007 dalla quale risulta che le donne vittime di violenza fisica in Emilia Romagna sono una su quattro e due terzi lo sono state più volte. «La nostra ricerca ci dice che il cuore del problema sta nel conflitto di genere che si acuisce in condizioni di maggiore indipendenza e autonomia delle donne, come accade in Emilia.
Per questo puntiamo alla prevenzione e alla formazione: a Ravenna, Parma, Piacenza lavoriamo nelle scuole sin dalle materne, abbiamo campagne di comunicazione per i giovani e corsi rivolti a operatori sociali, baby sitter, giornalisti, polizia locale. Ben vengano allora i parcheggi rosa o i progetti per rendere gli spazi più curati e familiari, ma, in tema di violenza, va richiamata a responsabilità maschile e sostenuta l’attitudine delle donne a correre un rischio ragionevole. E poi valutiamo i risultati: in Italia non c’è un solo studio che dimostri l’efficacia della telesorveglianza per prevenire la criminalità di strada. Eppure siamo pieni di telecamere».
Ribatte Cardia: «Sono due approcci: uno va al cuore del problema, l’altro agisce in una logica di prevenzione ambientale. Servono entrambi». A Portogruaro, per stendere il piano di assetto del territorio, hanno creato, con il sostegno della Provincia di Venezia, un laboratorio di donne, la cui formula hanno poi messo online. «Abbiamo chiesto alle donne», racconta Bassanini, «come usano il paese, le esigenze, i punti che sentono critici. Hanno mostrato grande capacità di tenere insieme spazi, tempi e scale diverse: dai percorsi quotidiani fatti con il passeggino alla conservazione del paesaggio agricolo e del patrimonio culturale. Se è vero che le donne percepiscono di più l’insicurezza e il cattivo funzionamento della città, è su questi strumenti urbanistici che bisogna puntare per disegnare luoghi che rispondano alle necessità e ai desideri di chi li abita».
«L’architettura non è mai neutrale», spiega l’ingegnere Angelo Villa, dirigente dei lavori pubblici del Comune di Sassuolo. «Perché se offri un’unica soluzione abitativa (in questo caso miniappartamenti e corridoi labirintici), è facile creare monosocialità, poi ghetto, e insicurezza, che non è solo una questione di genere, né di provenienza etnica». Del Progetto Braida la bonifica architettonica è l’aspetto più ordinario. «La demolizione era l’unica possibilità», dice Villa. «Anche perché l’architettura interrompeva la maglia stradale, creando pericolosi vicoli ciechi. Abbiamo puntato sulla ridefinizione urbanistica, ed è l’aspetto straordinario anche se, in fondo, fatto di cose semplici, che non faresti se nessuno te le facesse notare». A farlo è stato il Laboratorio di Sicurezza Urbana del Politecnico di Milano: filari di alberi lungo i marciapiedi per un ambiente più gradevole, illuminazione, rimozione degli angoli oscuri nei parchi, abbassamento delle siepi, fino ai parcheggi, «da non fare a spina di pesce ma a pettine, per la maggior visibilità in profondità. «Il problema è che l’urbanistica è fondata su norme e divieti, e con queste pensiamo di progettare il mondo, ma senza una visione d’insieme», continua Villa. «Per esempio, i nostri centri storici sono un modello organico, ma le regole non ci consentono di riprodurli.
Quell’idea, lo dico provocatoriamente, oggi l’applichiamo ai centri commerciali. E forse la città dovrebbe essere così, sostituendo al cliente il cittadino, e al consumo l’abitare». M
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