Ora che ha un biglietto aereo in tasca Sara tornerà in Iran, nella terra del padre "che avevo visitato tanti anni fa - ricorda - quando ero molto piccola: ma non so ancora quando ci andrò". Perché, ottenuta con il pieno dei voti la laurea in Scienze politiche, Sara ha lasciato Pomezia. dove abita con la famiglia, ed è partita per uno stage alla Commissione europea di Bruxelles. Ed è proprio da lì che alcune settimane fa ha annunciato al padre la vittoria del concorso: il suo scritto è risultato il migliore tra i 30 inviati alla commissione.
"Ma non solo testi - spiega Gabriella Sanna, del servizio intercultura delle biblioteche di Roma - ci sono pervenute anche tante fotografie, oltre ai video: i tre strumenti attraverso i quali gli italiani di seconda generazione potevano raccontare l'esperienza dei loro genitori". In Italia lo status dei figli di immigrati è legato alla condizione dei genitori: se i padri ottengono la cittadinanza (compiuti dieci anni di residenza legale) questa si trasmette anche ai figli. Altrimenti bisogna aspettare di diventare maggiorenni. "Lo spirito del concorso è legato proprio a questo aspetto - aggiunge Sanna - è ora di estendere il diritto di cittadinanza anche ai figli degli stranieri che non sono nati in Italia, ma che in molti casi vi sono arrivati da piccolissimi, crescendo qui e assorbendo la nostra cultura".
Se Sara nel suo testo immagina il padre camminare per la prima volta "per le vie di Pomezia, sentendosi diverso tra gli uguali, forestiero tra i paesani, extracomunitario tra gli indigeni", Ashai Arop, una ballerina di 31 anni nata in Italia da padre africano e madre italiana, nel suo racconto premiato come secondo classificato dice: "Nel 1990 non mi sfiorava minimamente l'idea che nel 2010 sarei potuta essere una specie di moda: adesso come si parla di dialetti e tradizioni si parla di meticci e seconde generazioni. Sono un caso, da studiare a scuola!".
Veronica Orfalian, 31 anni, la terza classificata, ha ripercorso la storia della diaspora armena: "Quando mio nonno morì - scrive - ripensai a ciò che aveva fatto e capii che nel mio cognome era conservata la storia della mia famiglia. Allora un giorno chiamai mio padre distogliendolo dalla lettura, lo presi dolcemente per mano e gli chiesi: 'Scendiamo le scale contandole in armeno?'. Sorridendomi raccolse il mio invito, e insieme cominciamo a contare pian piano: 'Meg, yergù, yerék...' ".
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